Gioberti, Vincenzo (1801-1852) e ontologismo

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Vincenzo Gioberti

La vita

Il filosofo, teologo, sacerdote e uomo politico Vincenzo Gioberti nacque a Torino il 5 aprile 1801 da Giuseppe Gioberti, un piccolo borghese di condizione economiche modeste, che lo lasciò orfano in giovane età. Sotto l'influenza della madre, una donna di forti sentimenti religiosi, G. intraprese un percorso d'educazione e studi ecclesiastici, presso i Padri Oratoriani, culminato con la laurea in teologia nel gennaio 1823 e l'ordinazione a sacerdote nel marzo 1825.

Nel 1826 egli fu nominato cappellano di corte ed, in seguito, entrò progressivamente nella vita sociale e politica del Piemonte dell'epoca, dapprima allacciando rapporti con la società segreta dei Cavalieri della Libertà, d'orientamento costituzionalista liberale moderato, poi collaborando, sotto lo pseudonimo di Demofilo, con la rivista di Giuseppe Mazzini (1805-1872), La Giovine Italia.. Tuttavia le sue idee filosofiche panteistiche e, soprattutto, il pensiero politico d'ispirazione repubblicana mazziniana, lo misero in cattiva luce: fu, infatti, arrestato dalla polizia nel giugno 1833, e, dopo qualche mese di carcere, costretto ad andare in esilio nel settembre dello stesso anno.

Visse quindi per ben quindici anni all'estero, dapprima a Parigi, poi lungamente a Bruxelles, dove campò come insegnante e scrivendo svariati trattati filosofici e politici. La sua fama è soprattutto legata alla pubblicazione, nel 1843, del trattato Del primato morale e civile degli Italiani, dedicato a Silvio Pellico (1789-1854), accolto in maniera molto fredda, se non ostile dal mondo ecclesiastico. In particolare, esso diede inizio ad un'annosa polemica tra G. e l'Ordine dei gesuiti, che proseguì con le Prolegomeni al Primato del 1845, Il Gesuita Moderno del 1847 e l'Apologia del Gesuita Moderno del 1848, e che portò, qualche anno dopo, alla messa all'Indice dei suoi libri.

Sempre al periodo franco-belga risalgono alcuni suoi scritti polemici contro Antonio Rosmini (Errori filosofici di Antonio Rosmini, del 1842),  Felicité de Lamennais (Lettere sugli errori politico-religiosi di Lamennais, del 1840) e contro il filosofo hegeliano francese Victor Cousin (1792-1867).

Nel 1846 il re sabaudo Carlo Alberto (1831-1849) proclamò un'amnistia, ma G., che nel frattempo si era trasferito a Parigi, non ne usufruì e fece ritorno in patria solo nel 1848: il 29 aprile, dopo un rientro trionfale a Torino, a G. fu offerto un seggio di senatore, ma egli preferì quello di rappresentante nella Camera dei Deputati del regno di Sardegna, di cui fu eletto primo presidente. Poco dopo G. divenne capo del governo piemontese, tuttavia lo scoppio della seconda fase della 1° guerra d'indipendenza e le polemiche con gli altri ministri sulla sua proposta di restaurare il Granduca di Toscana e il Papa (scacciati dai moti popolari del 1848) sui loro rispettivi troni, misero fine alla sua carriera politica. Non piaceva, tra l'altro, la sua idea di una federazione di stati italiani sotto la presidenza del papa, che gli valse il titolo di neo-guelfo.

Dopo la sconfitta di Novara (23 marzo 1849), il nuovo re Vittorio Emanuele II (re di Sardegna: 1849-1861; re d'Italia: 1861-1878) offrì a G. un incarico diplomatico a Parigi, dove si trasferì e da dove non fece mai più ritorno in Italia. A Parigi G. compose l'altra sua opera fondamentale (dopo il Primato morale e civile), il Rinnovamento civile d'Italia e qui morì per un colpo apoplettico il 26 ottobre 1852.

Il pensiero

La sua filosofia è una miscela di ontologismo panteistico, tradizionalismo e neoplatonismo. Il tutto è riassunto in un processo ciclico, che presenta una fase discendente, la mimesi (il processo di derivazione del mondo da Dio), ed una fase ascendente, la metessi (il processo con cui il mondo e l'uomo ritornano a Dio).

Dio si presenta al nostro intuito come l'Idea, o l'Essere reale assoluto, o Ente (Ens), che non può essere causato da altro ed esiste quindi "necessariamente". Tutte le creature sono invece "esistenze" e sono state create ex nihilo da Lui (per G. la mimesi era riassunta nella frase "l'Ente crea l'esistente"), e da Lui discendono, ma non possono essere confusi con Lui. La creazione non si conclude, in ogni caso, con l'atto creativo, ma con l'anelito dell'esistente - in particolare l'uomo - a ritornare all'Ente (sintesi della metessi era la frase "l'esistente torna all'Ente").