Savi, Domenico (Meco del Sacco) (m. ca. 1347) e i sacconi

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Castel di Croce (presso Ascoli Piceno)

vicino a Monte Polesio dove Domenico Savi fondò la chiesa dell'Ascensione

Il laico ascolano Domenico Savi (Meco del Sacco), che la leggenda vuole sia stato in gioventù un cavaliere templare, concittadino dello sfortunato Cecco d’Ascoli, iniziò la sua attività pubblica ad Ascoli Piceno nel 1319. Sposato con Clarella, da cui ebbe almeno un figlio, Angelo, S. era un letterato, avendo studiato francese, latino, filosofia e le Sacre Scritture, e scrisse tre libri di commentari sui Salmi, il Vangelo e l’Apocalisse, di cui non rimane traccia giacché sono stati bruciati nel primo processo da lui subito.

Inviso per tutta la sua vita pubblica dai francescani minoriti di Ascoli, S. subì ben tre processi da parte dell’Inquisizione, dai quali ne uscì, tutto sommato, indenne, o perlomeno non condannato al rogo, come invece ha affermato falsamente lo storico e abate Francesco Antonio Marcucci (1717-1798), equivoco che perdura anche oggigiorno, nonostante gli ottimi studi chiarificatori di padre Luigi Pastori (1735-1816).
Il primo processo a carico di S. si svolse nel 1334, con l’inquisitore fra Emidio, manco a dirlo un francescano minorita come sarebbero stati tutti i suoi inquisitori, e si concluse sì con il perdono giudiziale e la relativa penitenza, ma con la condanna al rogo dei suoi libri. A causa di questo fatto non c’è dato di sapere nulla sulla sua dottrina: tutto quello che si legge deriva da suoi detrattori, anche postumi, come il già citato Marcucci. Forse egli aderiva al movimento dei Fratelli del Libero Spirito, benché altre fonti riportano che egli fosse il fondatore ad Ascoli del movimento dei Pinzocheri (termine con il quale si possono identificare o i beghini o i flagellanti).

Nel 1338, S., che a quei tempi contava su 7.000 seguaci spontanei (S. non ha mai fondato un ordine monastico), subì un secondo processo in seguito ad una denuncia di “pratiche orgiastiche” dei soliti francescani minori, rosi dall’invidia che egli avesse raccolto attorno a sé molti più fedeli di quanto avesse potuto raccogliere il loro ordine nella zona! L’inquisitore era Fra Giovanni da Monteleone (altro minorita), il quale fece rinchiudere S. in prigione, lo scomunicò e gli fece perdere i diritti sull’ospedale, che S. aveva fondato nel quartiere di Porta Tufilla, e sulla chiesa (chiamata Romitorio dell’Ascensione), eretta – con il permesso del vescovo Rinaldo IV (vescovo 1317-1343) - su un terreno di sua proprietà, sul monte Polesio. Fra Giovanni ordinò inoltre la demolizione dei due edifici: solo la chiesa sarebbe poi stata ricostruita dagli agostiniani nel 1417.

Liberato su cauzione, S. fuggì ad Avignone da Papa Benedetto XII (1334-1342) per perorare la sua causa: il pontefice, dopo un’inchiesta condotta dal cappellano Oliviero di Cerzeto, lo assolse dalla scomunica e “lo restituì alla comunità dei fedeli e ai sacramenti della Chiesa”.

Nel 1344, dopo la morte del vescovo Rinaldo, e l’elezione del nuovo prelato, Isacco Bindi (il Perugino) (vescovo 1343-1353 e 1355-1358), S., che nel frattempo si era messo prudentemente sotto la protezione degli agostiniani, subì da parte dell’inquisitore Fra Pietro della Penna S. Giovanni un terzo processo, che si concluse con una condanna ad una pena pecuniaria di 60 fiorini d’oro, al soggiorno obbligato per due anni a Roma e alla scomunica con confisca dei beni (ma non al rogo come asseriva il Marcucci). Si dice che S. fosse scampato a pene più gravi grazie alle pressioni dei suoi 10.000 seguaci, detti sacconi e composti anche di nobili, religiosi e suore, ed anzi che l’inquisitore avesse pensato bene di rifugiarsi ad Ancona per timore di ritorsioni.

Evidentemente non erano emerse gravi accuse a suo carico: se ciò fosse stato, come relapsus, S. sarebbe senz’altro condannato al rogo. L’ascolano, tuttavia, intendeva far valere le sue ragioni presso Papa Clemente VI (1342-1352), al quale fece pervenire un’istanza contro l’operato di Fra Pietro della Penna S. Giovanni: nel luglio 1344 il papa incaricò il vescovo d’Ascoli di esaminare la sentenza, ma poiché anche Fra Pietro aveva chiesto una revisione (ovviamente nel senso di una condanna più grave) del processo, tutto l’incartamento passò nelle mani del cardinale Guglielmo di Curtè, che assolse il S., recatosi nel frattempo ad Avignone, il 26 maggio 1346.

La soddisfazione per S. poteva dirsi completa, quando poi, l’anno successivo, il 20 febbraio 1347, fra Pietro da Penna S. Giovanni fu condannato alla salatissima multa di 500 fiorini d’oro, per il reato d’estorsione continuata (si faceva pagare elevate somme di denaro dagli inquisiti stessi per “evitare” guai peggiori).

Tuttavia, non si sa se S., che non rientrò più da Avignone ad Ascoli, fosse ancora vivo alla data in questione, anzi è altamente probabilmente che, come tanti altri, fosse morto nello stesso 1347, durante la tremenda epidemia di peste nera, che flagellò tutta l’Europa per i successivi cinque anni e che si ritiene sia stata la principale ragione per cui, già pochi anni dopo, non si sentì più parlare dei sacconi.