Sozzini (o Sozini, Sozzino, Socino, Socini o Socinus), Lelio (o Laelius) Francesco Maria (1525-1562) e famiglia Sozzini

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Arnoldo Prunai: Lapide che ricorda Lelio e Fausto Sozzini

(Palazzo Sozzini - Siena)

La famiglia Sozzini

Lelio Francesco Maria Sozzini (il cui cognome è riportato secondo svariate grafie come Sozini, Sozzino, Socino o Socini, nonché nella forma latinizzata completa Laelius Socinus) nacque a Siena il 25 marzo 1525, sesto dei sette figli del giureconsulto e professore universitario Mariano Sozzini (1482-1556), detto il giovane per distinguerlo dal più noto e omonimo nonno (1401-1467), e della moglie fiorentina Camilla Salvetti (m. 1554).

Il primogenito dei due coniugi fu Alessandro Sozzini il giovane (1509-1541), padre, a sua volta dell'altro famoso riformatore della famiglia, Fausto Sozzini, mentre degno di nota furono anche altri quattro fratelli di Lelio, tutti di fede antitrinitaria:

  • Cornelio: eretico processato dapprima a Bologna nel 1558 assieme al fratello Celso, e poi a Siena nel 1560, assieme al fratello Dario, per aver messo in dubbio l'autorità del pontefice e la validità del sacramento dell'Eucaristia: fu liberato per interessamento del Duca Cosimo I de' Medici (1537-1574).

  • Dario: incarcerato a Siena per gli stessi motivi di Cornelio (vedi sopra). Dopo la liberazione, si recò con il fratello Camillo in Valtellina, ma, accusati d'antitrinitarismo, essi ne furono espulsi nel 1563 per ordine di Heinrich Bullinger, riparando in seguito a Costanza. Alcuni autori ipotizzano che, da questo momento, la figura di Dario Sozzini (da Siena) coincida con quella di un certo Dario Senese, un antitrinitario attivo in Moravia e Transilvania negli anni '70 del XVI secolo.

  • Celso (m. 1570): professore di diritto a Bologna, trasportò nella città felsinea l'Accademia senese dei Sizienti nel 1554 e successe come cattedratico al padre Mariano alla sua morte nel 1556. Fu processato a Bologna assieme al fratello Cornelio ed abiurò. Morì a Bologna nel 1570.   

  • Camillo: sfuggì alla cattura nel 1560, che coinvolse i fratelli Cornelio e Dario, emigrando in Svizzera. A Zurigo fu ospite del mercante Antonio Mario Besozzi (m. 1567): scoperto nel 1565, fu cacciato dalla città e il Besozzi fu processato. Camillo si recò allora in Valtellina, cercando di stabilire la propria residenza a Chiavenna, ma ne fu impedito dal pastore riformato, Scipione Lentulo. Scelse allora di abitare a Piuro, in casa del pastore riformato Girolamo Turriani (o Turriano), dove conobbe e divenne amico del commerciante anabattista Niccolò Camulio. Tutto questo gruppo, compreso Camillo, fu espulso dalla Valtellina nel 1571.

I primi anni

Iniziato agli studi di legge, secondo la tradizione di famiglia, all'università di Padova, dove i genitori erano emigrati quando egli aveva cinque anni, S. conobbe e strinse rapporti di amicizia con il collega del padre Matteo Gribaldi Mofa.

Tuttavia, poco dopo, S. abbandonò i suoi studi giuridici per approfondire la teologia evangelica: la tradizione lo vuole ispiratore (ma fu, più probabilmente data la giovane età, un semplice partecipante) dei Collegia Vicentina del 1546, le riunioni riformate eterodosse, alle quali parteciparono i principali anabattisti e antitrinitari dell'epoca, tra cui Paolo Alciati della Motta, Celio Secondo Curione, Francesco Della Sega, Giovanni Valentino Gentile, Giulio Gherlandi, Matteo Gribaldi Mofa e Francesco Negri da Bassano.

S. in esilio

Nel 1547 S. lasciò l'Italia, probabilmente perché già nel mirino dell'Inquisizione come eretico, per recarsi in Valtellina, all'epoca parte del Cantone svizzero dei Grigioni. Qui, a Chiavenna, egli conobbe e fu fortemente influenzato da Camillo Renato, ma pur parteggiando per le sue idee, cercò di mantenersi il più neutrale possibile nella diatriba che quest'ultimo aveva intrapreso con il pastore locale Agostino Mainardi.

Nell'ottobre dello stesso 1547 egli si trasferì a Basilea, dove conobbe Sébastien Castellion e Celio Secondo Curione (la presunta amicizia dei due, risalente ai Collegia Vicentina del 1546, non è documentata). Nella città svizzera, S. s'iscrisse all'università, il cui rettore era il cartografo tedesco ed ex francescano passato (nel 1529) al luteranesimo, Sebastian Münster (1488-1552).

Qui fu accolto da un collega svizzero del padre, Bonifacio Amerbach (1495-1562), a sua volta, genitore del futuro riformatore Basilio Amerbach (1533-1591): S. scrisse una lettera di presentazione per quest'ultimo, il quale desiderava recarsi in Italia per completare i suoi studi di giurisprudenza. Studi che evidentemente il nostro non perseguì più di tanto poiché nel periodo 1548-49 la sua presenza viene segnalata prima a Ginevra, poi in Francia, a Nérac, presso la corte di Margherita di Angoulême (1492-1549), moglie di Enrico II di Navarra (re:1516-1555), protettrice di riformatori come Guillaume Briçonnet, Jacques Le Fèvre d'Étaples e Giovanni Calvino, e infine in Inghilterra, dove avrebbe conosciuto Pier Martire Vermigli e Jan Laski.

In seguito S. rientrò a Basilea, dove visse, alternandosi con Zurigo, negli ambienti universitari, ospite rispettivamente di Sebastian Münster e dello zurighese Conrad Pellican (Pellicanus) (1478-1556). A Zurigo S. entrò in contatto con Heinrich Bullinger, che divenne quasi un padre per il giovane senese e al quale egli espose i suoi primi dubbi religiosi: il riformatore lo incoraggiò a scrivere a Calvino in persona ed, in effetti, S. gli inviò due lettere con vari quesiti sulle pratiche nicodemiche, come la possibilità di sposare una donna riformata, che non avesse abbandonato le cerimonie cattoliche, oppure le implicazioni per i riformati nel dover assistere ad una messa cattolica, se costretti, o su argomenti più teologicamente impegnativi come il valore del Battesimo o il dogma della resurrezione della carne. Le risposte ferme, ma aspre, di Calvino, anticipavano le future battaglie epistolari fra i due.

S. in Germania e Polonia

Nel giugno 1550 S. si recò in Germania, a Wittenberg, per incontrare Melantone e per iscriversi all'università, dove strinse amicizia con Flacio Illirico. Esattamente un anno dopo (giugno 1551), l'avventuroso senese partì, su invito del polacco J. Maczynski conosciuto a Wittenberg, per un primo viaggio in Polonia, passando da Breslavia, e qui fece la conoscenza del medico imperiale, cripto-calvinista, Johannes Crato von Crafftheim (1519-1585), corrispondente epistolare di diversi riformati italiani, che operavano in quelle terre, come Marcello Squarcialupi e Andrea Dudith Sbardellati.

Da Breslavia S. si recò a Cracovia, conoscendo Francesco Lismanini (1504-1566), all'epoca confessore cattolico della regina di Polonia, Bona Sforza, moglie di Sigismondo II Iagellone, detto Augusto (1543-1572), ma in seguito stretto collaboratore di Giorgio Biandrata.

Le accuse contro S. in Svizzera

S. rientrò, dopo essere passato dalla Moravia, in Svizzera, giusto nel momento della disputa tra Calvino e Jèrome Bolsec, l'ex carmelitano, passato alla Riforma e contestatore del dogma calvinista sulla predestinazione, che decise di ritornare al Cattolicesimo. Agli inviti alla moderazione e alla tolleranza di S., indirizzati al riformatore ginevrino, questi, in maniera violenta e minacciosa, rispose a S. di guarire dalla sua curiosità di questionare continuamente le cose religiose, prima che questo lo portasse in grossi guai: del resto i crescenti dubbi del senese sull'utilità dei Sacramenti e sulla forza redentrice di Cristo iniziavano a mettere in dubbio perfino i riformatori svizzeri a lui più favorevoli, come Bullinger.

Nella seconda metà del 1553 avvenne il famoso processo a carico di Michele Serveto, conclusosi con il rogo, il 27 ottobre, del medico antitrinitario spagnolo. Questo episodio fu l'occasione per i dissidenti della Riforma, principalmente italiani, di far sentire la loro voce di protesta: infatti vi furono prese di posizione molto polemiche da parte di Gentile, Gribaldi Mofa e Curione, che dovettero emigrare successivamente da quella che a loro era sembrata la città della tolleranza religiosa. Anche Castellion intervenne, scrivendo, sotto lo pseudonimo di Martin Bellius, il suo libro più famoso, De haereticis, an sint persequendi (Gli eretici devono essere perseguiti?), un appassionato appello alla tolleranza ed alla libertà religiosa, alla cui stesura pare avesse collaborato anche S., benché nel periodo 1552-53, quando avvenne la tragedia di Serveto, egli si trovasse in Italia (nella natia Siena dove iniziò alle sue idee religiose il nipote Fausto, a Bologna per visitare il padre Mariano, e a Padova presso l'amico Gribaldi Mofa).

A questo punto fioccarono, sempre più fitte, le accuse e le segnalazioni a Bullinger di eterodossia a carico di S.: il medico bergamasco Guglielmo Gratarolo (1516-1568) segnalò che S. era in accordo con i difensori di Serveto, il pastore Celso Massimiliano Martinengo, predicatore della Chiesa Italiana a Ginevra, denunciò l'aperta critica di S. verso il dogma della Trinità, e perfino Pier Paolo Vergerio scrisse da Tubinga per segnalare il rafforzamento delle idee antitrinitarie di S. nei Grigioni, confermato in loco anche da Giulio Della Rovere.

Bullinger fu quindi costretto ad insistere che S. scrivesse una confessione di fede ortodossa: dopo qualche tentennamento il senese compilò un'ambigua dichiarazione, senza una vera e propria confessione di fede. Egli dichiarò di onorare i tre principali credi cristiani occidentali (Cattolicesimo, Calvinismo e Luteranesimo), di seguire la Scrittura canonica e il Simbolo apostolico, di voler abbandonare le discussioni e le inutili dispute per poter "riposare nella stessa verità di Dio". Bullinger si limitò ad introdurre delle correzioni nella suddetta dichiarazione e ad avvertire il suo protetto di non propagandare le sue dottrine e i suoi dubbi. E S. mantenne per un certo periodo la promessa, assumendo un atteggiamento nicodemico in terra protestante: in questo tempo, l'unico suo intervento fu quando egli fece delle osservazioni al proprio protettore a proposito dei Commentaria dell'umanista antitrinitario Martin Borrhaus (nome umanistico: Cellarius) (1499-1564).

Gli ultimi anni

Ma, nel 1554 morì sua madre, Camilla Salvetti, seguita dal padre nel 1556, e, oltre ai lutti di famiglia, egli soffrì anche per la fine della sua indipendenza economica a causa del sequestro da parte dell'Inquisizione dei suoi beni di famiglia, in quanto condannato come eretico in contumacia. S. decise quindi di intraprendere un nuovo viaggio in Polonia, probabilmente per cercare un ambiente più tollerante alle sue idee eterodosse, rispetto alla Svizzera, ed un protettore, che potesse garantirgli un salvacondotto per un viaggio in Italia alla ricerca di come recuperare almeno parte del patrimonio di famiglia.

Fu proprio Calvino che gli scrisse una lettera di raccomandazione per il principe polacco Nicola Radziwill e il riformatore Jan Laski. S. si recò dunque, passando dapprima dalla Germania, in Polonia nell'autunno 1558, dove incontrò il medico Giorgio  Biandrata: l'azione degli antitrinitari polacchi come Pietro Gonesio e Grzegorz Pawel fu rinforzata dall'arrivo dei due riformatori italiani, i quali (soprattutto il Biandrata) aiutarono a formare una comunità, soprattutto di esuli loro connazionali, a Pinczòw vicino a Cracovia.

Dopo esser stato ricevuto benevolmente dal principe Radziwill e dal re Sigismondo II Augusto, nella primavera del 1559, carico di raccomandazioni e salvacondotti regali, S. partì per l'Italia, passando attraverso Vienna, dove l'accolse il futuro imperatore Massimiliano II (1564-1578), simpatizzante per la causa riformista, che gli fornì un ulteriore salvacondotto per l'Italia.

Ma nonostante tutte le potenti presentazioni e raccomandazioni, S., giunto a Venezia, non riuscì, neppure con l'aiuto del doge Girolamo Priuli (1559-1567), a far dissequestrare i suoi beni, confiscati dall'Inquisizione. Oltretutto i suoi fratelli Cornelio e Dario sarebbero stati da lì a poco arrestati per le loro idee religiose eterodosse.

Deluso, S. rientrò nel 1560 a Zurigo, da cui non si mosse più e dove ricevette varie volte la visita del nipote Fausto. A Zurigo S. dimorò presso la casa di un tessitore di seta di nome Hans Wyss e vi morì il 14 maggio 1562, a soli 37 anni.

Le opere

S. pubblicò molto poco nella sua vita, e quasi tutti i suoi appunti e carteggi passarono al nipote Fausto, che, avvisato della morte dello zio da parte di Antonio Mario Besozzi, si precipitò a Zurigo per raccogliere gli scritti di Lelio, che poi usò per meditare e sviluppare la dottrina del pensiero sociniano.

Solo due brevi trattati De Sacramentis e De resurrectione corporum furono dati alle stampe, oltre ad un commentario sul primo capitolo del Vangelo di San Giovanni, pubblicato nel capitolo 11 del libro II del trattato di Biandrata e Ferenc Dàvid De vera et falsa unius Dei, Filii et Spiritus Sanctii cognitione (Della falsa e vera conoscenza dell'unità di Dio Padre, Figlio e Spirito Santo), la cui attribuzione alla penna di S. si deve allo storico Delio Cantimori.

La dottrina

Il pensiero di S. risentì degli influssi dell'umanesimo filologico di Lorenzo Valla, dell'esegesi del Nuovo Testamento di Erasmo, delle tesi antitrinitarie di Michele Serveto (senza la sua concezione metafisica), della spiritualità di Juan de Valdés e della polemica sui sacramenti di Camillo Renato. Tuttavia fu un suo pensiero originale il desiderio di richiedere continuamente risposte razionali a domande teologiche: questa posizione non lasciava spazi per i dogmi, le Sacre Scritture erano viste come un'autentica testimonianza e non un pretesto per l'invenzione di ulteriori dogmi. Il ruolo della volontà e dell'intelletto umano era elevato ai massimi livelli: l'uomo poteva controllare le sue decisioni morali, partendo da una base razionale. Su queste premesse, la "vera" Chiesa perdeva il suo supernaturalismo e diventava una società di credenti, idealmente collegata alla Chiesa dei primordi o Chiesa primitiva.

L'altro punto fondamentale del pensiero di S. era la negazione della divinità di Gesù: Cristo non era la seconda persona (o ipostasi) della Trinità, ma solamente un uomo, sebbene con caratteristiche divine. Inoltre la Sua umanità era identificata con la sofferenza, l'umiltà, la povertà del mondo degli oppressi, che Egli voleva salvare, e non con il mondo dei ricchi e potenti, un concetto radicale di ispirazione anabattista, che sarebbe stato in seguito rielaborato dal nipote e da Biandrata.