Fra Dolcino da Novara (ca. 1260-1307) e dolciniani

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Fra Dolcino da Novara

 

La vita

Fra Dolcino nacque, intorno al 1260, a Prato Sesia (Novara) (o secondo altre fonti a Trontano, in Val d'Ossola): la voce che lo vede figlio illegittimo di un prete spretato pare totalmente priva di fondamento, scaturita da un equivoco, voluto dai suoi detrattori, sul cognome del padre, Julio Preve, o De Pretis o Presbitero (nel testo latino Dulcinus, filius presbyteri Iulii). In gioventù fu probabilmente un francescano, sicuramente compì degli studi regolari con il grammatico vercellese Syon (m. 1290), perché mostrò sempre una certa cultura e una buona conoscenza del latino e delle Sacre Scritture.

Nel 1290 entrò nel movimento degli apostolici di Gherardo Segalelli, ma per diversi anni non si fece particolarmente notare. Il cambiamento avvenne nel 1300 dopo la morte sul rogo del Segalelli: la repressione da parte della Chiesa cattolica fu molto brutale e lo stesso D. riparò per qualche tempo nel Bolognese. Da qui scrisse la prima delle sue lettere a tutti i seguaci del movimento, presentando la sua idea sullo sviluppo delle ere della Storia rielaborando le ben note teorie di Gioacchino da Fiore.

Ben presto D. fu nominato capo del movimento degli apostolici e nei primi mesi del 1303, egli trasferì il movimento a Cìmego, sulle montagne del Trentino, vicino ad Arco sul Lago di Garda, dove conobbe Margherita di Trento, figlia della contessa Oderica di Arco ed educanda in un convento. La fanciulla sarebbe diventata la futura compagna di D., che da Arco scrisse la seconda delle sue lettere agli apostolici.

Tuttavia poiché la lunga mano dell'Inquisizione era giunta fino in Trentino con il rogo di tre apostolici, D. decise nel 1304, per organizzare meglio la resistenza, di guidare i suoi seguaci (ben tremila persone) con un'epica marcia attraverso le montagne lombarde della Bergamasca (dove furono raggiunti da Longino Cattaneo, futuro luogotenente di D.) fino in Val Sesia, la sua terra natia. Si dice che il nome di Campodolcino, un paese vicino a Chiavenna, sia una diretta testimonianza di quest'esodo di massa dei dolciniani.

In Val Sesia i dolciniani si insediarono dapprima nella parte bassa della valle tra Gattinara e Serravalle, in località Piano di Cordova, nel feudo dei conti di Biandrate, e grazie all'apporto di servi fuggiaschi dei vescovi di Novara e di Vercelli, arrivarono ad essere una schiera di circa 4.000 persone. Si unirono anche diversi letterati provenienti da varie parti d'Italia (Bologna, Toscana e Umbria), come Bentivegna da Gubbio.

Successivamente sotto l'incalzare delle truppe del vescovo di Vercelli, Raniero de Pezzana Avogadro (1235-1310), essi si spinsero più in su nella valle, invitati dall'abà (capo di una corporazione valligiana) Milano Sola, di Campertogno, un paese pochi chilometri prima di Alagna. Da lì, per difendersi meglio dapprima si trasferirono sulle pendici della Cima Balme ed infine in Val Rassa, vicino a Quare, su una montagna denominata Parete Calva, dove i superstiti (circa 1.500 persone) si asserragliarono, protetti dai valligiani valsesiani, per tutto l'inverno del 1304. Da qui scendevano per attaccare e saccheggiare gli accampamenti militari sottostanti.

Ogni azione compiuta dai dolciniani in questo periodo fu giustificata da D. Egli riteneva che essi fossero talmente perfetti da poter commettere qualsiasi atto senza correre il rischio di peccare, secondo il detto di San Paolo: Tutto è puro per i puri (Lettera a Tito 1,15) ed in questo essi assomigliarono molto ai Fratelli dei Libero Spirito.

Ma nel rigido inverno del 1305 la morsa dell'assedio delle truppe cattoliche fu talmente incisiva che Margherita di Trento, con inaspettato coraggio, decise lei stessa di guidare il gruppo in una disperata azione di sgancio dall'assedio attraverso montagne e passi innevati fino alla loro nuova roccaforte, il monte Rubello, vicino a Trivero, in provincia di Vercelli, dove giunsero nel Marzo 1306.

Nel frattempo, nello stesso 1306, volendo definitivamente farla finita con questa setta, il Papa Clemente V (1305-1314) aveva bandito una crociata. I dolciniani, ben presto circondati e posti d'assedio dalle truppe cattoliche e dalle popolazioni biellesi (che non furono solidali come quelle valsesiane), resistettero per circa un anno, ma poi, oramai ridotti in condizioni disumane (mangiavano carne di topi e di cani e ci furono perfino episodi di cannibalismo), dopo un ultimo assalto, avvenuto il 23 marzo 1307 e costato la morte a 200 dolciniani, alfine i 140 superstiti si arresero.

D., Margherita e Longino Cattaneo furono catturati vivi e portati a Biella, dove Longino e Margherita furono arsi sul rogo il 1° Giugno 1307, nonostante i tentativi di alcuni nobili locali di salvare la vita della donna, facendola abiurare. D. fu costretto ad assistere al rogo della sua compagna e successivamente portato a Vercelli per essere, a sua volta, arso: durante il percorso gli vennero strappate le carni con delle tenaglie roventi. Nonostante quest'atroce tortura, D. non si lamentò mai, eccetto quando si strinse nelle spalle all'amputazione del naso o quando sospirò profondamente al momento dell'evirazione.

I superstiti dolciniani furono ripetutamente condannati dal Sinodo di Treviri del 1310, da quello di Lavaur del 1368 e infine da quello di Narbona del 1374: eppure 70 anni dopo la vicenda tragica della Val Sesia, venivano ancora segnalati suoi seguaci in Trentino.

Le vicissitudini di D. suscitarono l'interesse di diversi letterati nel corso dei secoli come Nietzsche e Dante Alighieri, che lo descrisse nell'Inferno nel canto XXVIII ai versi 55-60 (Or di' a fra Dolcin dunque che s'armi....).

La sua riabilitazione avvenne alla fine del XIX secolo: venne infatti considerato un "apostolo del Gesù socialista" e nel 1907 sul luogo della sua ultima resistenza fu eretto, a cura degli operai biellesi e valsesiani, un obelisco commemorativo, che fu abbattuto a cannonate durante il fascismo nel 1927 per essere poi ricostruito più modestamente come cippo nel 1974.

La dottrina

Come si diceva, D. si ispirò alle dottrine millenariste di Gioacchino da Fiore. Secondo D., la storia dell'umanità era contraddistinta da quattro periodi:

  • Quello del Vecchio Testamento, caratterizzato dalla moltiplicazione del genere umano,

  • Quello di Gesù Cristo e degli Apostoli, caratterizzato dalla castità e povertà,

  • Quello iniziato al tempo dell'imperatore Costantino e di Papa Silvestro I, caratterizzato da una decadenza della Chiesa a causa dell'accumulo delle ricchezze e dell'ambizione,

  • Quello degli apostolici Segalelli e D., caratterizzato dal modo di vivere apostolico, dalla povertà, dalla castità e dall'assenza di forme di governo ed esso sarebbe durato fino alla fine dei tempi.

Inoltre, nelle sue lettere, egli fece ampio accenno all'Apocalisse di Giovanni e in particolare ai sette angeli delle sette chiese, precursori della propria setta. Egli infatti attendeva il settimo angelo, cioè di un papa, finalmente eletto da Dio e non dai cardinali: questi ultimi sarebbero stati distrutti, assieme a Papa Bonifacio VIII (1294-1303), da Federico III d'Aragona e di Sicilia (1296-1337), re nel quale erano state riposte le speranze dei ghibellini italiani. Nonostante le profezie di D. su Federico III non si avverassero, D. rimase sempre un riferimento per i suoi seguaci ai quali aveva predetto che, sotto questo nuovo papa, gli apostolici avrebbero potuto ricevere la grazia dello Spirito Santo e predicare e vivere in pace fine alla fine dei tempi.