Il sacerdote italiano Primo Vannutelli nacque nel 1885 a Genazzano, in provincia di Roma, da una famiglia molto religiosa. Compì gli studi presso il Seminario Pio a Roma (in seguito chiamato Pio Romano), dove si laureò in filosofia e teologia. Nel 1909, nonostante l’anno precedente avesse passato un momento di crisi in cui aveva dichiarato di non voler diventare sacerdote, egli effettivamente fu ordinato prete. In seguito, grazie ad una seconda laurea in lettere conseguito presso l’università di Roma, V. iniziò un’attività d’insegnamento in licei romani, unitamente a quella di studi biblici grazie alla sua predisposizione verso le lingue antiche (conosceva, infatti, il latino, il greco antico, l’ebraico e l’aramaico).
Dal 1916 V. iniziò a collaborare alla Rivista di scienza delle religioni, fondata da Ernesto Buonaiuti, assieme ai sacerdoti Nicola Turchi (1882-1958) e Bacchisio Raimondo Motzo (1883-1970), ma il periodico entrò nel mirino del Sant’Uffizio, con l’accusa di essere un organo di propaganda modernista, per essere stato pubblicato senza le necessarie autorizzazioni. V., Buonaiuti, Turchi e Motzo furono dunque sospesi a divinis, e poterono essere reintegrati solo dopo un giuramento di fedeltà alla Chiesa, prestato il 13 luglio dello stesso anno.
Negli anni seguenti V. mantenne apparentemente un profilo basso (come si dice oggigiorno), dedicandosi, negli anni ’30, agli studi sui vangeli sinottici, avvalorando la tesi, oggi largamente condivisa, che il primo vangelo, in ordine di tempo, fosse quello di Marco.
V. morì nel 1945, ma la sua opera (in realtà una serie di meditazioni) che avrebbe suscitato maggiori polemiche fu pubblicata postuma solamente nel 1978 con il titolo Il testamento di fede di don Primo Vannutelli, a cura del famoso arabista (e amico di V.) Francesco Gabrieli (1904-1996). In queste meditazioni, concentrandosi sulla figura di Gesù Cristo, V. scrisse che Egli non era il verbo incarnato, che probabilmente molti dei miracoli a lui attribuiti erano stati esagerati dai racconti a coloro che gli erano stati vicini, che il concetto di resurrezione era da intendersi in un’accezione diversa da quella ufficiale. Oltretutto, disse V., non siamo neppure in grado di capire il pensiero del Nazareno, considerando che tutti gli autori, che ne hanno scritto, sono intervenuti, solo diversi anni dopo la morte di Gesù. A questo punto, c’era da domandarsi se per caso non fossero stati trasmessi i pensieri degli apostoli più che quello di Gesù stesso.
Inoltre il sacerdote laziale mostrava la sua amarezza sull’atteggiamento della Chiesa cattolica, permanentemente divisa per motivi astrusi, impegnata a ribadire la propria infallibilità, ma certo non senza colpe o errori commessi. Lo stesso sacramento dell’Eucaristia è visto come un atto mistico, ma che purtroppo divide i cristiani. D’altra parte V. pensava che non c’erano differenze tra i cristiani e i credenti di altre religioni, e, si domandava, perché mai Dio avrebbe dovuto favorire i primi, lasciando gli altri brancolare nelle tenebre? Che cosa resta dunque del Cristianesimo? Secondo V. “Resta poco poco: Dio, l’anelito e la gioia dell’universo”, aggiungendo che era necessario che tutti (soprattutto la base, e non certo la gerarchia ecclesiastica) ritornassero a meditare sui testi sacri per poter sviluppare una nuova liturgia, “compresa e sentita da tutti”.