Lentulo (o Lentolo), Scipione (1525-1599)

Scipione Lentulo (o Lentolo), nato a Napoli nel 1525, entrò, a vent'anni, nell'ordine dei francescani ed ottenne il dottorato di teologia a Venezia nel 1549. Tuttavia nel 1555 lasciò il monastero per sposarsi, per questo fu imprigionato dall'Inquisizione per due anni: solo nel 1557 riuscì a fuggire a Ginevra, dove fu convertito alla religione riformata.

Dotto e valente storico, L. scrisse probabilmente l'unica opera storica dell'epoca sui valdesi, dal titolo Historia delle grandi e crudeli persecutioni fatte ai tempi nostri in Provenza, Calabria e Piemonte contro il popolo che chiamano valdese dove entrò in polemica con i nicodemiti, esaltando il martirio di coraggiosi personaggi, come l'ex cappuccino e pastore riformato della valle d'Angrogna, Gioffredo Varaglia, bruciato sul rogo a Torino nel 1558 e il posto, lasciato vacante proprio da Varaglia, fu offerto nel 1559 a L. da parte dei pastori di Ginevra.

Nel 1560 L. tradusse in lingua italiana la bozza della confessione di fede degli ugonotti per inviarla al duca di Savoia, Emanuele Filiberto (1559-1580), ma da lì a poco scoppiarono nuovamente gli scontri (soprattutto in Valle d'Angrogna) tra valdesi e savoiardi, dopo il lungo periodo di pace per le Valli Valdesi, favorito dall'occupazione militare da parte dell'esercito francese rinforzato da diversi reparti mercenari luterani. Nel 1561 tra il Duca di Savoia e i valdesi si arrivò ad un armistizio, l'accordo di Cavour, che portò ad una qualche forma di libertà di culto per i Valdesi. Ma l'ala oltranzista di L. contestò questo patto e i maggiorenti valdesi decisero di espellere il focoso pastore di Angrogna per motivi di sicurezza.

L. dovette quindi emigrare in Valtellina (dal 1512 sotto il cantone protestante dei Grigioni), dove accettò il pastorato della comunità di Montesondrio. Tuttavia, dopo alcuni anni, oppresso dalla gotta e affaticato dalle grandi distanze che doveva percorrere nella sua comunità frazionata in tanti villaggi dispersi sulle montagne (di cui si lamentò in una lettera al riformatore Heinrich Bullinger a Zurigo dell'8 settembre 1567), egli assunse, nel 1567, il compito di pastore a Chiavenna, posizione che detenne per ben 30 anni, fino a poco prima della sua morte nel 1599. Egli era succeduto a Girolamo Zanchi, il quale aveva abbandonato questo posto, tra gli altri motivi, a causa dall'irrequietezza dei gruppi settari, anabattisti e antitrinitari.

Anche L. dovette gestire sia a Montesondrio, che a Chiavenna, il difficile rapporto soprattutto con gli antitrinitari: prese infatti posizione contro Camillo, fratello di Lelio Sozzini, opponendosi a che egli risiedesse a Chiavenna. Ma prese anche le sue brave cantonate: ospitando per esempio il bolognese Battista Bovio, che in seguito si rivelò essere un antitrinitario difensore del libero arbitrio e probabile seguace di Sébastien Castellion, oppure raccomandando presso Bullinger e Theodore de Béze l'ex domenicano pugliese Alessandro Maranta, che poi si fece espellere ignominiosamente da Ginevra nel 1573, riconvertendosi infine al cattolicesimo.

Contro il proliferare di sette eterodosse, L. riuscì a far intervenire i pastori di Coira: essi emisero nel 1570 un decreto, che obbligava qualsiasi predicatore riformato nella Valtellina a dichiarare la propria adesione alla Confessio Rhaetica. Tuttavia, L. non riuscì a convincere lo svizzero Fabrizio Pestalozzi, trasferito in Polonia, a mantenere la fede riformata, nonostante un intenso scambio epistolare: Pestalozzi sarebbe infatti diventato un antitrinitario.

Nel 1575 L. partecipò al Sinodo di Coira, organizzato dal pastore Kaspar Hubenschmid (ca. 1535-1595), e nel 1596, un anno prima di ritirarsi, per i servizi resi alla comunità, gli fu assegnato una pensione di sei pezzi d'oro all'anno.

Morì a Chiavenna nel 1599.