Prolifica e ramificata famiglia di nobili bresciani, del XVI secolo, aderenti alla Riforma e protettori di pensatori ortodossi perseguitati, come Publio Francesco Spinola che fu ospite della famiglia stessa nel 1560.
Di questa famiglia si ricordano:
Il conte Ulisse Martinengo, nato a Brescia nel 1545 circa, quartogenito di Alessandro Martinengo da Barco, signore di Urago (anch'egli interessato alle dottrine protestanti), e di Laura Gavardo, era scappato per motivi di fede a Ginevra, dove si era formato sotto la guida di Théodore di Bèze. Successivamente frequentò la chiesa italiana di Anversa, in Belgio, finché non emigrò in Valtellina con la madre vedova, Laura Gavardo, che aveva nel frattempo aderito anch'essa al calvinismo.
In Valtellina, U. abitò in vari luoghi: a Chiavenna, Piuro, Sondrio, ma soprattutto a Morbegno, dove divenne pastore protestante a fino alla sua morte, sopravvenuta nel 1570: al suo posto subentrò Scipione Calandrini.
Probabilmente il più famoso aderente bresciano alla Riforma fu il conte Massimiliano Celso Martinengo (da alcune fonti erroneamente citato come fratello di Ulisse), nato appunto a Brescia nel 1515 e diventato un canonico regolare lateranense, con il nome di Don Celso, presso la chiesa di Sant'Afra a Brescia.
Nel 1541 M. fu chiamato dal confratello Pier Martire Vermigli a Lucca per insegnare greco al convento di San Frediano: i suoi colleghi furono Paolo Lasize, insegnante di latino ed Emmanuele Tremellio (ca.1510-1580), insegnante d'ebraico. Poco dopo, essi furono raggiunti da Girolamo Zanchi, che era stato nominato predicatore dell'ordine dei Canonici Regolari Lateranensi: Zanchi, docente di teologia, diventò amico di M. e di Celio Secondo Curione, precettore della famiglia lucchese Arnolfini.
Sia M. che Zanchi furono convertiti da Vermigli alla religione evangelica, ma nel 1542 Vermigli fuggì a Ginevra per sottrarsi alle spire dell'Inquisizione.
Partito il suo referente, M. fu nominato priore di San Frediano, dove rimase per quasi dieci anni, riuscendo a mantenere un prudente atteggiamento nicodemitico, fino al 1551, quando, accusato da Girolamo Muzio (1490-1576) di aver predicato la giustificazione sola fide, decise anch'egli di seguire le orme dell'antico maestro, prendendo la via dell'esilio con l'intenzione di recarsi in Inghilterra.
Dapprima si recò a Tirano, in Valtellina, dove però dovette assistere impotente all'espulsione degli evangelici. In seguito M. andò a Ginevra: qui si sposò con l'inglese Jane Stafford e accettò l'offerta di Calvino e di Galeazzo Caracciolo di diventare il pastore della Chiesa degli Italiani in esilio, punto di riferimento per i riformati italiani in fuga, come l'amico Zanchi, che lo raggiunse nell'ottobre dello stesso 1551, o Ludovico Manna, che fu suo catechista dal 1552. A Ginevra M. rimase fino alla sua morte nel 1557, in seguito alla quale venne sostituito da Lattanzio Ragnoni.
Dal punto di vista dogmatico, benché avesse avuto delle iniziali simpatie per le idee anabattiste e antitrinitarie soprattutto durante il suo breve periodo nella Valtellina, a Ginevra si conformò al credo riformista. Tuttavia proprio quelle sue prime conoscenze gli permisero di inquadrare personaggi, come Giorgio Biandrata e Lelio Sozzini, denunciando prontamente le loro idee potenzialmente pericolose al suo protettore, il riformatore di Zurigo Heinrich Bullinger.
Il conte Fortunato Martinengo Cesaresco, che sposò nel 1542 la contessa Livia d'Arco, fece parte del gruppo degli erasminiani, raccoltisi intorno ad Aonio Paleario a Padova nel periodo 1532-1536. Ebbe l'occasione inoltre di conoscere famosi riformati, come Pier Paolo Vergerio in occasione di una visita nel dicembre 1545 a Brescia del vescovo di Capodistria, che F. ospitò a casa sua, e Giulia Gonzaga nel 1547.
Di Fortunato è celebre un presunto ritratto eseguito da Moretto da Brescia (ca. 1498-1554) nel 1542 e conservato alla National Gallery di Londra.
Il sacerdote benedettino Lucillo Martinengo, fratello (anche se le fonti d'araldica non confermano tale parentela) dei conti Claudio e Camillo Martinengo, fu inquisito a Brescia nel 1568 come sospetto aderente alla setta di Giorgio Siculo. Benché il tribunale dell'Inquisizione di Ferrara lo condannasse per eresia, non poté in ogni caso arrestarlo, perché Brescia era sotto il governo della Repubblica di Venezia, che non ammetteva estradizioni per simili motivi. Del caso s'interessò perfino l'arcivescovo di Milano, San Carlo Borromeo (1538-1584), che escogitò vari stratagemmi per assicurare il prete eretico alla giustizia ecclesiastica.
Infine L. fu arrestato e processato nel convento di San Procolo a Bologna, sebbene grazie all'influenza della propria famiglia e alle generose cauzioni da essa versate, ottenne un trattamento di favore.
La sentenza fu quella del carcere perpetuo da scontare nel convento benedettino di Cesena, ma dai documenti appare che già nel 1571 gli era stata attenuata la pena.